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Mancare il Reale

Le facoltà di una vita immobile, 2011. O

"No, ormai non mi viene", disse lo scrittore.

Era il solito incubo della pagina bianca. Le pagine bianche erano fatte per essere deflorate a colpi di inchiostro, di sangue, di polvere da sparo. Mancava solo un dettaglio. L'altra metà dello spettacolo: i lettori, gente per cui le pagine non dovevano essere bianche, ma colorate.

Magari di noir.

"Bang", disse la calibro 45.

Il foglio si macchiò di rosso sangue e grigia materia cerebrale, poca, dell'agente letterario.

(Andrea Carlo Ceppi, Pagina bianca)

La teoria della ripugnanza nei confronti del nulla, che avrebbe indotto la natura a impedire in ogni maniera che il vuoto si potesse produrre, fu impiegata per giustificare piccoli incidenti e umane difficoltà. La definitiva messa in crisi della questione dell'horror vacui, che dalla fisica pienista di Aristotele aveva dominato per secoli, avvenne per mano di Torricelli che in un grande spettacolo dimostrativo spiegò infatti non solo che la natura non aborriva il vuoto (evitandone la formazione), ma che era semplicissimo realizzarlo. Nessun pericolo, vapore velenifero o invisibile entità maligna.

La paura del vuoto assume nella contemporaneità un nuovo carattere, in quanto spesso conseguenza di una cancellazione, di una violenza, per tutti il “Ground Zero”. Il vuoto diventa impatto visivo fuori registro, una spianata da parcheggio dalle proprietà sublimi.

Michael Arad, architetto vincitore per il concorso del Memorial Ground Zero ha pensato a due voragini in mezzo al fiume Hudson, quadrate e immense quanto le piante delle Twin Towers, capaci di risucchiare la corrente. Il progetto, tecnicamente irrealizzabile, è stato parzialmente modificato ma, quello che vuole essere un monumento commemorativo sarà comunque fatto di vuoto. E’ infatti sempre davanti all’assenza che sappiamo e dobbiamo ricordare.

Il lavoro di Valerio Murri è in tal senso commemorativo, presume con l’assenza di porzioni d’immagine una passata presenza visiva. Si direbbe nasca dal levare più che dal mettere segni. I candori che si stagliano tra gli spazi rivelano la molteplicità dei frame rappresentati così come la bianca lacerazione nella carta dei poster di Mimmo Rotella ne rivelava l’assemblaggio. Murri presenta le figure come fossero affreschi strappati senza cura, reperti di rappresentazioni.

In pittura tutto ebbe inizio quando si aprirono le porte della Galleria Iris Clert a Parigi, in occasione della personale di Yves Klein Le vide. I visitatori si ritrovarono spaesati nello spazio espositivo imbiancato di fresco con un cocktail blu tra le mani, e null’altro. Fra di loro Albert Camus, il quale, prima di andarsene, lasciò scritto sul registro "Con il vuoto, pieni poteri".

Proprio questo è parte del potere del lavoro di Valerio Murri, dosi di vuoti e pieni ripartite e pesate dall’istinto. Il quadrato della tela non viene preso in considerazione, perde i margini per acquistare esclusivamente un valore di supporto. Supporto che non viene nascosto sotto la  pittura bensì esibito, tralasciando le illusioni. La trattazione della tela è per molti artisti delle ultime generazioni solo una convenzione artigianale alla quale non serve prestarsi. Il segno di Murri colpisce la tela in maniera diretta, come se si trattasse di disegnare la pittura.

Le immagini si muovono su schermi liberi, inclusi ma non sempre conclusi tra i confini del telaio. Le figure galleggiano affiancate l’una all’altra in scorci prospettici improbabili. Come retroproiezioni su quinte bianche non allineate, un profilo, un interno e un dettaglio vanno a creare la struttura filmica di Murri.

La pittura di stampo fotografico ha sempre portato a una narrazione chiusa nella singola immagine (Richter ne è stato il maestro e in Italia Daniele Galliano l’eccellente interprete), Murri lavora invece su tracce di storie simultanee, ma non concluse, tipico procedere della generazione più recente. Gli avvicinamenti tra i soggetti avvengono per contrasto, contaminazione, sovrapposizione o dissolvenza. Più spesso attraverso uno strappo nella pittura che lascia emergere altra pittura.

E’ il cinema ad averci allenati alla ricomposizione di diverse inquadrature in un unico filo narrativo, campo e controcampo, totale e dettaglio, vicende sincroniche in luoghi differenti… Sappiamo leggere per sequenze gli stacchi di immagine, ed è per questo che non è difficile rintracciare trame e personaggi nel lavoro di Murri. Non è difficile ma resta impossibile “immagini interrotte, messe sulla tela per scopi che ho dimenticato” scrive l’artista. Non è quindi possibile identificare la sua storia, bensì ogni altra storia possibile, lasciando al fruitore tra consonanze e concomitanze d’immagini, tra gli ampi campi vuoti, il gioco di mettervi del proprio.

Il cortocircuito visivo che Murri presenta ha il ritmo di un video-clip verniciato, uno zapping pittorico. Come televisioni sintonizzate malamente pronte alla deflagrazione dei soggetti. Episodi singoli, dittici o trittici diventano solo un pretesto, racchiudendo ciascuno di essi un ulteriore polittico composto di frammenti. Le tele così sistemate una accanto all’altra sono brani di pellicola tagliati e incollati alla rinfusa, come in un montaggio analogico prodotto da strumenti impazziti.

S’intravedono pattern per carta da parati, telegiornali e finestre, piccoli oggetti ingigantiti e dive in posa. La selezione di immagini pare casuale, come se l’artista si sentisse vittima della gran quantità di soggetti possibili e scegliesse di non scegliere. Le ellissi drammatiche si confondono con la decorazione fino a impedire la distinzione tra le due.

Mentre la pittura ha sempre saputo essere fortemente sicura di sé, Murri ne dimostra le debolezze e i limiti (bidimensionalità, ricerca del soggetto, metratura da colmare e gremire), diventandone consapevole e complice.

Murri sembra riportare alla pittura le tre grandi crisi private della poetica di Michelangelo Antonioni (la crisi di incomunicabilità, la crisi di identità e la crisi di estinzione); dove per comunicazione si intende la leggibilità narrativa, per identità le proprietà intrinseche nella relazione quadro-tela-colore, mentre di estinzione parla richiamando gli altri media di comunicazione con i quali la pittura si sta sposando per non esserne integralmente divorata.

Alain Robbe-Grillet ha affermato che l'opera di Antonioni non fornisce risposte ma pone domande: simile intenzione è quella del disincantamento di Valerio Murri, della sua pittura anti-utopica, in una certa misura indifferente a se stessa. Entrambi violano l'usuale concetto deterministico della raffigurazione, così come della trama, restituendo invece l'usuale casualità degli eventi.

E’ come mancare il reale - spiega Murri, da registratore visivo inesauribile qual è. 

Ma è, in fondo, un videomaker che si sacrifica alla fatica del dipingere, un artista che mentre si interroga sul cosa  lo spinga a muovere il braccio sulla tela, non può smettere di fare pittura.

LUCA BEATRICE, 2004

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