Pieno di vuoto
Quella di Valerio Murri pare una pittura più di pensiero che di oggetto, più di sogno virtuale che di presenza attuale. E in certo modo, come suggerisce il titolo di questa mostra, i suoi lavori sembrano articolare il loro ritmo proprio negli ampi margini bianchi che spezzano i brandelli delle immagini dipinte. Il senso si trova negli spazi vuoti, dove i contorni si sfumano per poi tornare a confondersi.
Valerio Murri compone i suoi quadri secondo un processo analogo al montaggio cinematografico e alla struttura logica del video. Ritaglia le immagini seguendo i margini di inquadrature fotografiche di persone e paesaggi: poi le avvicina, ne sfuma i contorni, ridisegna lineamenti di volti e luoghi, quasi giocando con le inquadrature fino a stabilire per loro nuovi confini inattesi. Delinea così intervalli spazio-temporali tra un’immagine e l’altra, tra una suggestione visiva e la traccia di un altro ricordo.
A prima vista questi lavori paiono quasi richiamare alla memoria le combined paintings di Rauschenberg: ma qui l’oggetto è divenuto virtuale e del suo essere concreto è rimasto ben poco, o quasi nulla. Il concreto è disseminato in una sorta di mise en abime elevata a potenza: all’oggetto di esperienza si è sommata la sua traduzione in immagine fotografica e mediatica, a questa la sua trascrizione in pittura e infine ad entrambe si sono aggiunti il richiamo e la combinazione con altre immagini sottoposte allo stesso trattamento.
Le figure umane paiono tagliate come dalla forbice indiscreta e sintetica di un occhio tecnologico, per poi essere implementate e sfumate dal gesto del pittore in un gioco reciproco tra memoria e suggestione. Ne nascono visioni frammentarie di uomini e donne che guardano fuori dal quadro, in direzioni per noi ignote e misteriose: mentre noi li spiamo dalla dimensione – che ora scopriamo altrettanto discontinua e lacunosa – della nostra coscienza.
Siamo noi spettatori a creare con queste immagini un’intimità, una familiarità tanto profonda, quanto non reciproca. I volti spezzati e le immagini interrotte indicano infatti continuamente a un fuori-di-sé spazio-temporale, ma anche fisico, psicologico ed emotivo: che abita i margini vuoti e gli spazi bianchi della tela e che a noi resta inesorabilmente ignoto.
Ciò che loro sono e guardano si sottrae alla nostra vista e intuizione in un continuo rimandare e differire di domande e risposte sconnesse, secondo l’unico filo conduttore di agitati movimenti emotivi fatti di immagini. Non ci guardano, sfuggono, muovendosi agilmente tra le quinte di un palcoscenico illimitato degno di Erwing Goffman. E’ il palcoscenico virtuale che contraddistingue il nostro attuale essere nel mondo, fatto di suggestioni provenienti dai mezzi di comunicazione di massa: un luogo che si finge sempre spietatamente esposto allo sguardo collettivo, in cui il confine tra pubblico e privato pare sempre più sottile e dove pure, volenti o nolenti, ci troviamo anche noi spettatori.
Però le figure nel quadro non rinunciano al loro mistero e si richiamano l’un l’altra, anche solo per un particolare: in un gesto senza volto o in un volto isolato dal suo contesto, seguendo libere associazioni e sistemandosi secondo un’incoerente e tenace geometria inconscia.
Sono volti e luoghi che alludono a un persistente fuori scena seminato di angoscia, che sta oltre la tela e che ci scavalca; frame di rappresentazione che si sovrappongono ad altri frames, confondendosi e creando nuovi margini di significato; e memorie visive inaspettatamente accatastate l’una sull’altra secondo un ambiguo meccanismo anamnestico, in una continua altalena tra ricordo e rimozione. Qui il senso è dovunque, ma non dove potremmo aspettarci di trovarlo: è nel vuoto, nel taglio e nel silenzio.
Così l’immagine tronca di un volto rivolge lo sguardo fuori dalla tela, e l’occhio di chi guarda è attirato altrove, verso un luogo anch’esso fisicamente in fuga. Luoghi e figure appaiono e si dileguano, corrono di qua e di là dal quadro: come incontri in una chatroom, a distanza di sicurezza, o associazioni svolte seguendo imprevedibili processi idiosincratici, dalla struttura grammaticale intenzionalmente assente o muta.
MARIA CRISTINA STRATI, 2002