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Movie (Never Made)

Movie (Never Made), 2003. Olio su tela,1

Movie (Never Made): “film mai realizzato” è una frase che rappresenta perfettamente la sostanza del lavoro di Valerio Murri. Il titolo, che fa pensare a qualcosa di non riuscito, di non finito, può sembrare una specie di dichiarazione di inadeguatezza, e questo è un fatto insolito e strano, che spinge a chiedersi perché l’artista senta prima di tutto la necessità di confessare allo spettatore il mancato raggiungimento di qualcosa, un punto di non arrivo.

La risposta va probabilmente ricercata nel fatto che a Murri, più che ammettere un presunto fallimento, interessa introdurci in una dimensione della pittura che è tutta mentale, completamente anti-narrativa e anti-autoreferenziale.

Affermando che il suo lavoro è uno spettacolo mancato, l’artista dimostra innanzitutto di non inseguire facili scorciatoie, o scappatoie, e in questo senso movie (never made) è anche una dichiarazione di onestà. Ogni dipinto di Valerio Murri è infatti un breve discorso sulla pittura, sul suo percorso verso una pittura possibile o, ancor meglio, è il tentativo di far convivere sullo spazio bidimensionale della tela diverse alternative e possibilità formali e questo senza fare sconti alle incertezze e ai ripensamenti, al peso che deriva dal farsi carico dei limiti del mezzo, al senso di affanno che accompagna il lavoro del pittore e precede qualsiasi scelta linguistica. (Non è un caso che l’artista si identifichi con una celebre affermazione di Marlene Dumas: “troppe alternative, unite a una fervida immaginazione, producono ansia esistenziale).

Difficile orientarsi in un dipinto di Murri (che lui cerchi proprio il disorientamento di chi guarda?): l’elemento centrale potrebbe ad un primo sguardo sembrare la figura, un volto spersonalizzato che non è affatto un ritratto, la cui sostanza materica viene appena accennata, salvo poi constatare che questa affermazione (la centralità della figura) è subito negata dalla presenza di altri elementi, altre forme, qualche zona e linea di colore (rosso e giallo prevalentemente ma usati con grande misura), tutte scorie di immagini che furono fotografie, disegni, collages messe lì sulla tela ad annullarsi a vicenda.

Inseguire un significato sarebbe quindi fuorviante. Perché ciò che cerca Murri è proprio la sospensione del significato, che si cristallizza in un susseguirsi di affermazioni e negazioni, equivalenze tra elementi figurativi e forme astratte, tra pieni e vuoti, falsi rimandi di colore, segni di precisione e inesattezze, rigore formale e piccole asimmetrie.

Questo, se vogliamo, è il “non-racconto” di Murri, un “non-racconto” che si svolge ancor meglio nello spazio del dittico e del trittico (proprio perché dittici e trittici danno, al contrario, l’illusione del racconto) attraverso un ritmo di segni, forme e figure sospesi su uno spazio mentale e immateriale.

Il senso di immaterialità, in ultima analisi, è dato da un utilizzo “smodato” del bianco, il bianco inteso prima di tutto come grado zero della scrittura, poi anche come vuoto formale, concretizzazione del non finito. Difficile per un pittore avere a che fare con il bianco, “quell’omnicolore incolore – affermò una volta Herman Melville- che suscita un orrore vago e senza nome”.

Il bianco come un nulla, un fruscio di sottofondo che tende al silenzio.

Eppure sembra essere la dimensione cui aspirano tutte le forme (è significativo, in questo senso, quella specie di salto verso lo sfondo, verso il bianco appunto, di una delle figure dei dipinti di Murri), l’unica soluzione possibile, sembra dirci l’artista, all’inadeguatezza dello sguardo di fronte alle immagini.

DAVIDE FERRI, 2003

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